Anteprima dell’articolo che uscirà sul numero 9 di Art App dedicato alle tribù
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Nulla si crea, nulla si distrugge: alla scoperta del passato per conoscere il presente
Fusione, assimilazione, amalgama, mescolanza: sinonimi per designare quella particolare caratteristica che permette ad alcune danze tribali di fare ingresso nella società urbana e di mantenere sì la propria radice culturale, ma all’interno di un contesto contemporaneo.
Minacciate dalla privazione delle proprie tradizioni, conseguenza del fenomeno della globalizzazione, alcune società hanno trattato la danza esattamente come le altre componenti e attività della vita quotidiana soggette al cambiamento, ricercando nel “nuovo” un supporto per il proprio patrimonio coreutico, superando così il clichèt dell’isolamento culturale.
Sono così sopravvissute le antiche danze berbere e tribali dell’Africa Subsahariana nella danza Tribal Fusion, le antiche danze creole nella Dancehall e africane nell’ Hip Hop.
Sicuramente questo ingresso trionfale delle danze tribali nel mondo occidentale, nel repertorio metropolitano e globale, è stato determinato sia dal fenomeno dell’orientalismo, sia dal fascino esercitato dall’”esotico”, così come dall’ingresso della strumentazione multimediale nel panorama musicale.
Altro fattore necessario per la sopravvivenza delle danze tribali è stata l’integrazione culturale, il melting pot, che oggi caratterizza la maggior parte dei centri urbani nel mondo.
Ma cosa intendiamo per danze tribali? Sicuramente l’immaginario collettivo ci invita a considerarne l’aspetto prettamente antico e romantico, quale quello delle antiche tribù dell’Africa. E’ proprio a questa dimensione “selvaggia” e senza tempo a cui necessariamente dobbiamo associare il concetto di fusione. In etnologia il termine “Tribù” fa riferimento ai concetti di gruppo e di appartenenza, in cui le danze tribali sono praticate nei momenti più importanti della vita dell’uomo, come la nascita, l’ingresso nella vita adulta o nella comunità, il matrimonio, la morte, oppure la vita religiosa e spirituale.
Dalle antiche danze tribali alla Tribal Fusion Americana
La danza Tribal Fusion nasce negli Stati Uniti d’America negli anni ‘90 dall’American Tribal Style Belly Dance, (ATS), per quanto riguarda le movenze e i costumi, ma differisce da essa poiché fonde anche lo stile popping dell’ hip hop, il Flamenco, la danza africana, il kathak (una delle sette danze classiche indiane), la breakdance e la danza del ventre tradizionale. Inoltre viene integrata dallo yoga, disciplina indiana che vanta una tradizione millenaria.
La danzatrice che meglio rappresenta la Tribal Fusion è senza dubbio l’americana Rachel Brice, conosciuta in tutto il mondo per il suo straordinario talento e per la sua incredibile capacità di controllo muscolare, frutto di intensi studi di yoga e danze mediorientali; chi la vede danzare può paragonare il suo corpo ad un serpente, tanto la fluidità e la contrazione muscolare sono precisi e profondi.
Prodotto degli anni più recenti, la danza Tribal Fusion è oggi diffusa in tutto il mondo.
L’American Tribal Style, da cui deriva appunto la Tribal Fusion, è una particolare fusione ideata da Carolena Nericcio nel 1987 che, amalgamando passi e postura della danza orientale e stili popolari del Nord Africa con elementi mutuati dal flamenco e dalla danza indiana, porta le danzatrici ad un forte senso d’appartenenza al “gruppo”, eliminando così la presenza della solista e riportando la danza nell’alveo del concetto tribale, in quella comunione d’intenti che carica d’energia i movimenti.
La parola d’ordine è dunque fusione, al fine di far rivivere gli stili tribali all’interno di un contesto urbano e metropolitano; non è dunque un caso se entrambi questi stili, American Tribal Style e Tribal Fusion, siano nati negli States.
La fondatrice dello stile ATS, la Nericcio, fa un interessante parallelismo tra la sua personale esperienza e quella che ha portato alla nascita della danza orientale tra Nord Africa e Medio Oriente:
“Mi è successa più o meno la stessa cosa che accadde ai gitani quando lasciarono l’India diretti in Nord Africa: portavo con me il senso di quel che ero abituata a fare, ma poi sono stata influenzata da altre musiche e da altra gente. Così, ho seguito la mia intuizione e ho creato un’arte a partire dai fondamenti che la mia insegnante mi aveva dato, per poi abbellirli con le nuove idee che andavo sviluppando.”
Dalle danze tradizionali alla Dancehall: il sincretismo giamaicano
La danza Dancehall giamaicana contemporanea si sviluppa dall’inizio degli anni ’80 grazie al contributo di alcuni ballerini giamaicani inventori delle cosiddette moves, ovvero passi di danza battezzati con un nome giamaicano che corrispondono al titolo di una canzone o che vengono annunciati nel testo dal repper.
Questa danza ha radici profonde, in particolare trae le sue origini dai ceppi africano, europeo e creolo. Già possedimento spagnolo dal 1494 al 1655, noto con il nome di Santiago, la Giamaica è poi diventata dominio britannico; ottenne piena indipendenza dal Regno Unito solo il 6 agosto del 1962. Il suo sincretismo culturale è dunque il risultato di una storia di colonizzazione e di fusioni.
Come spazio culturale e luogo di aggregazione in cui si balla, le radici della dancehall sono da ricercare nell’epoca della schiavitù. Durante il periodo colonico infatti, gli schiavi africani svilupparono balli di coppia entrati poi a far parte del patrimonio culturale tradizionale giamaicano sulla base del ballo da sala europeo quadrille. L’emulazione di questa danza eseguita dai coloni determinò un impulso negli africani, che arricchirono dei propri ritmi l’accompagnamento musicale e dei propri passi di danza più morbidi e meno formali il repertorio coreutico europeo, arrivando a concepire la prima musica “moderna” popolare giamaicana: il mento.
Hedley Jones, ex presidente della Jamaica Federation of Musicians, (Federazione giamaicana dei musicisti), ha affermato che “la dancehall è sempre stata con noi, perchè abbiamo sempre avuto i nostri locali, le nostre piazze del mercato, i nostri baracconi…dove eseguivamo le nostre danze. E si chiamavano dancehall, sale da ballo.”
Quindi la dancehall non rappresenta l’epilogo delle radici musicali giamaicane, ma ne è la radice: negli anni ‘70, la sala da ballo con la band dal vivo ha ceduto il posto ai sound system, (discoteche mobili con potenti impianti di amplificazione). A loro volta i sound system sono stati il motore di molti dei successivi sviluppi della musica popolare giamaicana, anche della musica rap dei DJ.
In Giamaica gli eventi all’insegna della dancehall si svolgono prevalentemente in spazi aperti, in occasione dei quali si balla fino ad esaurire le forze, producendo performance intense e vibranti, le “dancehall session”.
…Dal Griot al B-Boy…
Se volessimo muoverci a ritroso nel tempo alla ricerca delle origini della danza Hip Hop dovremmo senza dubbio analizzare la figura del Griot.
Il ruolo del Griot all’interno del villaggio africano rimanda a quello dei cantastorie nelle corti medievali occidentali; egli è lo specialista della parola, grazie al quale questa diventa arte. La sua funzione è quella di custodire la storia e le tradizioni del suo popolo attraverso il racconto, all’interno del quale la parola viene supportata dalla musica e dalla danza. Solitamente si diventa Griot per discendenza diretta e le tradizioni sono trasmesse oralmente di generazione in generazione, attraverso precise tecniche mnemoniche tra cui i canti e i ritmi del tamburo.
Come la musica, in Africa anche la danza è collegata a particolari situazioni rituali o cerimoniali. Ad esempio sul ritmo Dununbà gli uomini ballano una danza possente, forte, vestiti di rosso in occasione del cerimoniale.
Ogni passo corrisponde ad un determinato ritmo e, ad ogni “chiamata” del tamburo, il passo di danza muta, sviluppando parallelamente il significato di cui si fa veicolo.
Nonostante il Griot mantenga ancora oggi un ruolo predominante all’interno di molte realtà rurali proprie dell’Africa e la sua cultura rappresenti nel mondo occidentale una fonte d’interesse a livello antropologico, questa figura ha un alter ego in chiave urbana e contemporanea: il B-Boy.
Ballerino di hip-hop e break-dance, il B-Boy ricorda le prove di iniziazione dei giovani chiamati a diventare adulti nei villaggi . Proprio il B-boyng, (dai più chiamato break-dance), è una delle quattro discipline in cui si articola l’hip hop, ovvero l’espressione più intraprendente e diffusa della comunità afroamericana negli ultimi trent’anni. Le altre tre sono: il Rap, il Turntablism (ovvero “manipolazione del giradischi”) e l’Aerosol art (“arte delle bombolette”).
La storia orale dell’hip hop indica Kool Dj Herc come inventore del termine B-boy per definire i ragazzi che piroettavano attorno alla sua postazione nel corso dei block party.
Sui break ottenuti dai dj passando da un giradischi all’altro per mandare in onda consecutivamente gli stacchi di batteria di uno stesso brano, si verifica alla fine degli anni ’60 un’evoluzione dei movimenti fino ad allora utilizzati per ballare il rhythm and blues, il jazz e il boogie. Ragazzi per lo più appartenenti alle gang di quartiere, i primi B-boy adattano al ballo movimenti di autodifesa appresi nelle palestre, nelle bande medesime o dai film di Bruce Lee. La capoeira brasiliana e il kung fu asiatico offrono così un consapevole contributo alle spettacolari evoluzioni dei ballerini di break dance, che all’inizio degli anni ’70 si sfidano in alcuni club di New York e Los Angeles. E’ il decennio decisivo per lo sviluppo del B-boyng, soggetto a continue innovazioni, di provenienza spesso contesa, fino al raggiungimento di una sorta di protocollo universalmente riconosciuto.
Beatrice Secchi