
“…Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera”
Dino Campana (1885,1932)
Corpo di capra, coda di serpente o di drago, testa di leone. Sputa fuoco dalle fauci e il morso della coda è velenoso; il suo nome è Chimera, paradigma del mondo spirituale terrifico etrusco ma anche dell’ambiguità della poesia, del linguaggio sensibile, dell’arte.
La Chimera di Dario Tironi è un inevitabile ringraziamento all’arte classica ed allo stesso tempo un atto di coraggioso esacerbamento. Un distacco dal contenuto in cui si mantiene animosamente la purezza della forma, seppur frastagliata dalla miriade di oggetti tratti dal mondo tecnologico, globalizzato. La materia subisce un processo di metamorfosi irreversibile in cui solamente a posteriori si coglie la presenza dei pezzi assemblati magistralmente dallo scultore.
Se l’ordine si rivela come “una condizione necessaria, benché non sufficiente”, (R. Arnheim, Entropia e Arte), l’artista esegue attraverso la Chimera un’operazione di recupero formale attraverso la complessa macchinosità del repertorio materico figlio della Rivoluzione Industriale, del progresso e dello spreco, che asserisce al caotico proliferare di un tragico ed obsoleto consumismo. I pezzi, considerati separatamente, raccontano la storia di una produzione seriale, spersonalizzata. Colti nell’omogeneità della Chimera sembrano appartenere ad un’altra dimensione, addirittura edonistica.
Un dialogo con l’osservatore schermato da stratificazioni di plastica, ferro, acciaio… Un’espiazione guidata dalle mani dell’artista e, come in una sorta di terapia dell’inconscio comunitario, trasmessa con grande consapevolezza al fruitore. La ricerca parte dunque dal sovraffollamento materico del mondo per giungere ad un “lieto fine”, nonostante assuma le forme di un’animale mostruoso, segno tangibile del male provocato dalla perdita di valore dell’oggetto e dalla conseguente acquisizione di un significato altro. Tale significato è il risultato degli sforzi creativi di un’artista che pur rimanendo nell’alveo della contemporaneità si fa portavoce delle tradizioni costruttive dei grandi scultori e della figurazione di un passato talvolta sottovalutato per la sua “boriosa bellezza” irripetibile ed insuperabile.
Il reinserimento cognitivo del compito dell’artista come creatore di un oggetto universalmente valido è così compiuto. L’empirismo di Dario Tironi deriva dal suo modo di osservare la realtà, colta nella Chimera in tutta la sua sfacciata e meravigliosa crudità.
Beatrice Secchi